Diciamoci anche qualcosa di scomodo

La ricetta “pronti–via” per uscire dalla crisi non ce l’ha nessuno. Però è anche vero che a nascondersi dei pezzi di verità o a non sforzarsi di raccontarci anche aspetti magari poco simpatici o poco pubblicizzati di questa crisi non si va lontano e si rischia seriamente di ripetere soluzioni preconfezionate o favorevoli solo a chi questa crisi in parte ha contribuito a crearla o la sta sfruttando per arricchirsi.

Un aspetto di questa crisi finanziaria che in pochi amano citare è il corto circuito che si è creato tra bolla finanziaria, istituti finanziari e debito pubblico. Nel 2007, appena prima dell’inizio della crisi che ancora oggi viviamo, a livello mondiale per ogni euro prodotto con il lavoro erano in circolazione 4 euro di debiti e di azzardi finanziari; il valore nominale dei “titoli tossici” era stimato essere da 9 a 12 (!) volte il PIL mondiale. Grandi banche, istituti assicurativi multinazionali e grandi operatori finanziari che si sono riempiti di titoli tossici, fondati sul nulla, che hanno propinato ai loro clienti e che hanno usato per gonfiare artificiosamente i loro numeri. Quando questa bolla nel drammatico 2008 si è svuotata, si sono trovati con una domanda semplice cui rispondere: dietro i depositi dei cittadini, i soldi non ci sono più… Come uscirne?

Bisognerebbe adesso ricordarsi che quelle banche, questi colossi della finanza mondiale, che spesso pontificano su cosa dovrebbero fare i governi USA e della zona Euro, possono oggi parlare anche perché ieri sono state salvate proprio da quei governi tra il 2008 e 2010 con iniezioni di denaro fresco stimate in 13mila miliardi di dollari (ripeto: mila miliardi di dollari). L’ultima è il colosso belga Dexia, al cui proposito si è parlato solo poche settimane fa di nazionalizzazione, e lo stesso tema della nazionalizzazione delle banche in crisi è sul tappeto in Grecia. E poiché nessun Governo trova i soldi sotto il cuscino o glieli porta Gesù Bambino, andrebbe anche capito quanto di questi soldi — “donati” alla Banche perché non saltassero per aria — sia oggi parte del loro debito pubblico o siano soldi che i Governi hanno rastrellato sul mercato a caro prezzo o si sono visti “prestare” da altri soggetti.

Di contro ad una semplice verità che pochi ci raccontano, ce ne è una presunta che in tanti invece si sforzano di raccontarci tutti i giorni: il debito pubblico l’abbiamo perché nei decenni scorsi si è speso troppo per il cosiddetto “welfare”, quindi bisogna ridurre la spesa pubblica, ridurre i servizi ai cittadini e evitare l’invadenza dello Stato. “Meno Stato, più mercato”… Lo gridano in molti, anche tra quelli che si riempiono la bocca di carità cristiana e di solidarietà. Poi uno però va a guardare e scopre che il vero balzo in avanti del nostro debito è avvenuto negli anni Ottanta quando, con l’inflazione galoppante, i tassi di interesse salirono anche sopra il 20% e, a furia di interessi da pagare, la spesa pubblica passò dai circa 20mila miliardi di lire del 1980 ai circa 127mila miliardi del 1990. Quanto successo in quegli anni è l’esempio — purtroppo per noi — più lampante di come si possa mettere in ginocchio uno Stato semplicemente giocando con gli interessi sul debito, esattamente come gli usurai con quei poveracci che hanno bisogno di soldi subito. Vuoi far salire il debito pubblico di uno Stato? Basta mettere in giro la voce che è a rischio, magari downgradare (brutto inglesismo per dire: valutare negativamente) il suo rating, avanzare dubbi sulle sua tenuta finanziaria. Quello stesso Stato, che sta per emettere BOT o BTP per raccogliere denaro e pagare i suoi debiti, per non rischiare di avere i suoi titoli invenduti (nessuno compra BOT a basso rendimento di uno Stato su cui circolano brutte voci) alza i rendimenti per renderli più appetibili. Risultato netto: per finanziare esattamente lo stesso debito, lo Stato paga più e più interessi e così il debito anziché scendere, sale…

E perché, da questo punto di vista, la situazione dell’Italia è ben peggiore di 30 anni fa? Perché all’epoca i titoli di Stato, attraverso le banche, alla fine della fiera erano comunque comprati dalle famiglie italiane, a tal punto che era anche di moda chiamare gli Italiani il “popolo dei BOT”. Le famiglie italiane finanziavano con i risparmi quel debito dello Stato italiano che magari aveva anche le radici nei comportamenti delle stesse famiglie (tasse non pagate, ricorso scorretto al welfare, etc…) ma di cui fruivano anche: sanità, scuola pubblica, pensioni… Adesso è diverso: qualcuno stima che circa il 50% del debito italiano sia in mano a “stranieri”, Cina compresa, ovviamente, che pare detenga ormai il 4% del nostro debito. Quindi non solo non siamo più padroni di noi stessi, ma si capisce meglio anche l’interesse della finanza mondiale a far sì che il malato non muoia e a commissariarci. Forse il Fondo Monetario Internazionale ha deciso di monitorare direttamente cosa succede in Italia per tutelare l’euro; per sicuro FMI non sta per Filantropia Moralmente Integra e si muove anche e soprattutto per tutelare quei Governi che o direttamente o tramite banche e istituti finanziari di quella nazione hanno investito nei titoli di stato italiani.

Come se ne esce ? Come abbiamo già scritto, il punto non è tagliare, tagliare, tagliare ma far ripartire il Paese. Più la nostra economia reale sarà forte, meno saremo esposti alla economia virtuale degli speculatori e delle agenzie di rating (qualcuno vede la Cina o l’India interessati al loro rating da parte di S&P o di Fitch?). Nel frattempo però il problema del debito e degli interessi sul debito esiste. E forse se ne potrebbe impostare l’uscita con una misura forte di un governo forte: congelare o rinegoziare quella parte del debito che non esiste a fronte di servizi per i cittadini, ma che o è in mano a chi ha già ricevuto, in modi vari, finanziamenti o sta usando di quel debito per ulteriori speculazioni o è detenuto da chi, avendo spalle larghe e capitale, può anche permettersi qualche sacrificio in più di chi fatica a tirare fine mese. Certo, operazione molto rischiosa e dagli esiti tutt’altro che scontati. Ma operazione coraggiosa che rompe con la logica assurda dei tagli lineari e del facile approccio di far pagare anzitutto chi non può non pagare o del togliere a chi non può impedire di farlo.

“Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali” (Don L. Milani)

Questa riflessione è nata leggendo l’ultimo numero di Altreconomia. Una delle poche riviste che oggi fornisce ancora “cibo per la mente”. Fateci un pensiero.

1 thought on “Diciamoci anche qualcosa di scomodo”

  1. Innanzitutto grazie Paolo per avermi fatto scoprire Altreconomia.
    Hai scritto cose molto interessanti (livello dei tassi d’interesse e sostegno alle banche),
    ma non sono d’accordo con la proposta di congelare il debito pubblico.
    Il fatto è che comunque, se non lo si cancella (drastico e difficile da realizzare), esso rimane e prima o poi andrà saldato. A meno di un VERO piano per lo sviluppo (in tutta Italia e basato sulla sfida per la competitività, non per la caccia alle sovvenzioni pubbliche), anche un congelamento del debito non si rivelerà altro che un palliativo, secondo il mio modesto parere.
    Certo, l’effetto potrà valere per qualche anno e non mese, ma sempre di palliativo si parla. Anche la Grecia sta pensando di riconoscere solo il 50% del debito pubblico, come valore nominale, ma già questo significa debolezza, sul mercato. E’ la funzione sociale di salvataggio (con le banche, esempio) a cozzare con la solvibilità finanziaria. In un azienda tali “salvataggi” sarebbero crediti da riscuotere…
    Trattare gli Stati come aziende di grandi dimensioni (e ce ne sono di aziende con bilanci pari a quelli di Stati medio-piccoli) è un problema, ci sono delle approssimazioni che, in tempi di congiuntura negativa, portano a questi rischi amplificati di default.
    Se il debito fosse ancora quasi esclusivamente in mano ai cittadini, ci sarebbero più risorse da investire nel rilancio, perchè gil interessi verrebbero ai cittadini, ai piccoli imprenditori (escludendo la smodata pressione fiscale).
    Purtroppo se nessuno si fida, si fa come le banche: i soldi li hanno, ma presso la Banca Centrale a tassi non elevati, piuttosto che finanziare qualche progetto d’investimento serio.

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