L’uomo che regalava biciclette

A guardare la partita sull’articolo 18 tra Monti da una parte e partiti dall’altra, viene da pensare che nella sua precedente vita, il Presidente del Consiglio, sia stato un abile donatore di biciclette — contento poi di punzecchiare gli altri con il ben noto “Hai voluto la bicicletta …?”

Dopo i primi riscontri da partiti e forze sociali, Monti aveva davanti a sé 3 opzioni: la prima: “Scusate, capisco che non volete cambiare. La ritiro”. Risultato: caos, spread alle stelle, rating sotto i tacchi e Monti che poteva dire, rivolgendosi a partiti, sindacati e Confindustria: è tutta colpa vostra. La seconda: tirare dritto con il decreto legge. Avrebbe nello stesso momento vestito i panni dell’uomo-tutto-di-un-pezzo e avrebbe fornito un grande alibi al Parlamento (“Non ci ha dato modo di discuterne e presentare i nostri bellissimi emendamenti”). Invece ha scelto la terza: ha proposto un disegno di legge che a breve invierà alle Camere con un brevissimo bigliettino d’accompagnamento: “Se non vi piace, provate a cambiarlo”. Come dire: avete voluto la bicicletta? Adesso l’avete. Fatemi vedere come pedalate. Fuor di metafora: forze politiche, Confindustria, sindacati sono da almeno un decennio a parole impegnati a fronteggiarsi sul tema della flessibilità del lavoro, della lotta alla precarietà, della revisione degli istituti di tutela di chi il posto fisso ce l’ha, etc, etc… Nei fatti i risultati stanno a zero. Ecco quindi la provocazione del Mario da Varese: non vi piace la mia proposta? Dite che sarete capaci di fare, con pochi giorni di dibattito parlamentare, quello che non siete riusciti a fare dal 2003 (Legge Biagi) ad oggi? Ecco la bicicletta. Fate vedere al Paese di cosa siete capaci. Mostrando così ancora una volta, se mai ve ne fosse bisogno, che Super Mario è tutto fuorché un timido moderato.

Ma la polpetta avvelenata servita al Parlamento non sta semplicemente nella sfida a fare in pochi giorni ciò che non è stato fatto in anni. Specialmente sul maledetto tema dell’articolo 18 il punto cruciale è che il Parlamento non sarà chiamato a dire la sua su come riformare l’articolo 18, ma a fare proposte a riformare la riforma dell’articolo 18. Cioè a dire: se nulla proponete, questo resta. Quindi i partiti (tutti!) non hanno di fronte a loro, tra le tante, l’opzione: tiriamo a campare. Se tirano a campare, si va a votare il disegno di legge, cosi come proposto da Monti e Fornero. Quindi il cambio di prospettiva, l’inerzia della partita che si sta giocando, è completamente mutata.

E allora vorremmo provare a fare due considerazioni complessive ed alcune domande legate o possbili scenari di integrazione–modifica–mitigazione della riforma proposta.

La prima considerazione: discutere dell’articolo 18 è ammettere la sconfitta. Trovarsi a discutere se e come proteggersi dai licenziamenti facili e di come impedire licenziamenti di massa, equivale per una classe politica intera a sancire il proprio fallimento rispetto alla vera questione: quale futuro per questo Paese? Si è adesso tutti impegnati a discutere di come mitigare i licenziamenti perché nessuno è stato capace di proporre una sintesi credibile e praticabile di come aumentare la assunzione. Come dire che, avendo preso atto che si sta giocando in difesa e che mai si supererà la metà campo, ci si pone il problema di come prendere pochi o nessun goal. L’altra considerazione è che, a fronte di una crisi che impatta tutta la zona Euro, qualsiasi riforma della riforma dell’articolo 18 si vorrà proporre, la cornice in cui proporlo dovrà necessariamente essere la zona Euro. E non perché semplicemente qualsiasi decisione verrà presa, potrà avere una ricaduta sullo stato di salute della nostra moneta. Ma anzitutto perché qualsiasi decisione verrà presa, che allarghi o restringa la porta dei licenziamenti per motivi economici, essa dovrà confrontarsi con una comunità (quella dell’Euro) in cui vige la libera circolazione “delle persone e delle merci”. E quindi la competizione con cui confrontarsi, l’off shore verso cui possono già oggi rivolgersi le aziende che, a ragione o a torto, non intendono investire nel nostro Paese, non è più soltanto l’India o l’Estremo Oriente. Sono le stesse nazioni della zona Euro che propongono un contesto complessivo (costo del lavoro, flessibilità in ingresso e in uscita, infrastrutture, etc…) migliore del nostro. Oggi è la Romania, ma domani potrebbe essere la Grecia o il Portogallo. Ricordate l’Irlanda di alcuni anni fa? Chi potrebbe impedire domani a Grecia o Portogallo di rendersi appetibili per le aziende europee o no a colpi di deregulation e di riduzione delle tasse?

Alcune domande–proposte per cercare di introdurre elementi diversi nel dibattito, che pare al momento un pochino asfittico e tutto ristretto a reintegro sì–reintegro no:

Immaginiamo venga ripristinato un articolo 18 come prima. Ne verrebbe una riforma del mercato che lavoro che sostanzialmente si concentra sulla (giusta) revisione della flessibilità in ingresso. Chi ci garantisce che le aziende accetteranno una riforma che giustamente punta a eliminare le storture del precariato, del temporaneo sommerso, ma solo quelle? Chi ci garantisce che saltando il patto per cui tutti rinunciano a qualcosa, le aziende non continuino nella grande opera ormai sistematica dal 2003 di aggiramento delle norme e di distorsione della flessibilità in precarietà? È pensabile una riforma che chieda passi avanti solo ad uno dei soggetti in campo?

Esiste una via per presentare come non utile all’azienda un ricorso in giudizio, anche se poi sancisce l’indennizzo anziché il reintegro? È pensabile un ampliamento della forbice di indennizzo tale per cui per le aziende possa essere non conveniente licenziare? Oggi, nelle grandi aziende presenti nel nostro Paese (multinazionali e non), le dimissioni camuffate da “volontarie” sono “aiutate” da una buonuscita che oscilla tra le 30 e 40 mensilità. Se le aziende mostrano oggi giorno di essere disposte a mettere sul piatto tali importi, perché la legge — proponendo dalle 17 alle 25 mensilità — dovrebbe anche farle risparmiare? Si alzi e di molto l’indennizzo e si vada a vedere quante sono le aziende fintamente in crisi disposte ad anticipare 40 mensilità (più di 3 anni di stipendio…) pur di liberarsi di un dipendente.

Perché non vincolare le aziende che licenziano per questa via a riassumere una data percentuale dei licenziati nell’arco dei 3 anni successivi, laddove dovessero ricominciare ad assumere? Se non sono licenziamenti discriminatori, non dovrebbero esserci ostacoli ad assumere domani chi viene messo alla porta oggi, se serve nuovo personale.

Perché non porre una percentuale massima di persone licenziabili per motivi economici rispetto al totale dei dipendenti nell’anno o nel triennio? Se si supera tale percentuale scatta unilateralmente la dichiarazione dello stato di crisi, con il conseguente blocco dei capitali aziendali e della libertà di assumere. E che questa percentuale sia calcolata e fissata sul numero dei dipendenti iniziali e non tenga conto di eventuali assunzione che avvengono nel frattempo, onde evitare la politica dei due forni, per cui abbiamo aziende che “concordano” dimissione nella Divisione X e nel frattempo assume nella Divisione Y.

Viceversa, se è vero che le nostre aziende sono poco competitive anche per via del loro nanismo rispetto ai concorrenti europei e extraeuropei, perché non introdurre un sistema premiante al crescere dei dipendendi? Ad esempio, riducendo via via l’incidenza degli oneri sociali o rivedendo la fiscalità?

Se è vero che la vera strategia è quella di far crescere l’occupazione anziché semplicemente rendere difficili i licenziamenti, e si vuole puntare su alcuni settori strategici perché non modulare gli incentivi all’assunzione e i disincentivi ai licenziamenti anche per favorire la crescità di alcune attività (pensiamo a tutto quanto gira attorno alla green economy o al turismo nel Paese con il più vasto patrimonio culturale mondiale) e la scomparsa pilotata di altre? Perché avere una legge che tratta tutti i settori economici allo stesso modo?

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