Le nostre scuole superiori preparano per l’università?

Da qualche settimana è a disposizione sul sito della fondazione Agnelli la graduatoria delle scuole secondarie superiori di quattro Regioni italiane. L’esperimento, che sicuramente ha bisogno di ulteriori messe a punto, essendo stato avviato in Lombardia da pochi anni, appare interessante, per diversi ordini di motivi. Il primo è che da tempo si predica, anche in ambito scolastico, come in quello sanitario, la politica della competizione e il credo della valutazione quali–quantitativa dei servizi; la seconda è che, sempre più spesso, l’orientamento delle famiglie all’iscrizione superiore avviene in saloni degli studenti, in manifestazioni, in open day in cui per attrarre i “clienti” si usano strategie di marketing emotive, non sempre oggettive; la terza è che gli investimenti scolastici, grazie a strumenti comparativi, potrebbero essere meglio orientati, privilegiando situazioni particolarmente critiche o a sostegno di centri di straordinaria eccellenza.

Agli aspetti sopra esposti, aggiungo un elemento di curiosità professionale. Mi occupo di storia dell’istruzione come docente all’Università degli studi di Sassari, ed anche personale, avendo figlia frequentante, e un’altra in attesa di frequentare, le scuole oggetto di valutazione.

Le premesse storiche

Com’è noto la bergamasca vanta, fin dall’Ottocento, livelli d’istruzione particolarmente alti, in confronto alle medie nazionali e Treviglio ha sempre goduto di una posizione di tutto rispetto. I motivi di questo successo sono molteplici: influenza positiva del modello austriaco e poi sabaudo–risorgimentale, che assegnava alla scuola una funzione essenziale per la costruzione di uno Stato moderno; natura della proprietà e del sistema economico, con una rete di piccole imprese particolarmente interessate ad investire sul capitale umano; presenza di un articolato sistema di istituzioni pubbliche e “private”, con l’inserimento di congregazione dedite all’istruzione popolare e professionale. In città operavano, per esempio, i Salesiani, le Canossiane e le Suore di carità (Collegio degli Angeli). Istituti che, mossi da spirito religioso, hanno occupato prevalentemente settori lasciati scoperti dalla sensibilità della classe dirigente liberale.

I risultati dell’indagine a livello macro

La migliore sintesi dei risultati di quest’indagine a livello macro, cioè delle Regioni del nord Italia, la fornisce la stessa fondazione.

“1. È confermata la buona qualità della formazione fornita dagli istituti tecnici […]

2. È confermata la presenza di un vantaggio relativo dei segmenti liceali dell’offerta formativa rispetto agli istituti tecnici nell’attrazione di studenti più dotati scolasticamente e di estrazione socio–culturale più elevata […]

3. È confermata la presenza di un effetto–Provincia: gli studenti dei piccoli centri hanno in media performance universitarie migliori […]

4. Nonostante la presenza di alcune realtà di chiara eccellenza, l’analisi conferma la performance deludente della maggior parte delle scuole non statali rispetto a quelle statali”.

Una prima osservazione sembra interessante, lo studio pare togliere argomenti alle critiche che in questi anni sono state prodotte, spesso del tutto ingenerosamente, all’istruzione statale; per fare un esempio eloquente, gli ultimi 40 posti della classifica lombarda, che conta 440 scuole, sono occupati da istituti non statali.

Non solo, ma mette in luce due potenziali rischi della politica scolastica futura: quello di investire soltanto nel settore dell’istruzione liceale, ritenuta, erroneamente, l’unica in grado di preparare i giovani alla carriera universitaria, e quella di porre come base della opzione tra istruzione tecnica professionale e istruzione liceale solo il criterio dell’estrazione sociale degli studenti e non la loro vocazione e propensione intellettuale (orientata alla visione pratica, empirica e tecnica dei problemi, nel primo caso, diretta alla speculazione teorica nel secondo, tanto per semplificare). Dovremmo cioè evitare, nel futuro, che avvenga ciò che sta accadendo in questi anni in cui, per esempio, i figli di immigrati, anche se eccezionalmente dotati, finiscono per frequentare scuole di brevissima o media durata, non per una precisa scelta, ma perché impossibilitati a seguire percorsi più lunghi.

Il caso di Treviglio

Un rapido accenno va indirizzato anche all’approfondimento del caso di Treviglio.

La città, che pure godeva in passato di vere e proprie glorie, come l’istituto tecnico agrario Cantoni (ora 240°), quello commerciale Oberdan (211°), quello tecnico industriale (363°) si trova ora complessivamente nella parte medio–bassa della classifica, in grande affanno rispetto alle altre concorrenti.

Il dato che più impressiona, però, è la vera e propria sconfitta dell’istruzione non statale. Solo i Salesiani ottengono una stirata sufficienza e si collocano alla 165ª posizione, ma sono quasi centocinquanta gradini al di sotto del liceo Galilei di Caravaggio, 23°, e oltre una trentina più giù del liceo S. Weil, 133°. Ben al di sotto della media è l’Istituto Facchetti (289°) e il Collegio degli Angeli (301°), in zona retrocessione, per usare un linguaggio calcistico.

Questi dati dovrebbero mettere in allarme la città, perché avere un livello scarso d’istruzione secondaria significa diminuire il numero di laureati oppure rallentare il percorso degli studi dei nostri figli in confronto a quello di altri coetanei cresciuti in province con migliori performance scolastiche.

Certo la scuola — mi verrebbe da aggiungere, per fortuna — non dipende solo dagli enti locali, ma il territorio esercita un’indubbia influenza sul successo formativo, grazie alle sue proposte culturali, alla vivacità delle iniziative nel tempo libero, alla cura delle biblioteche, al sostegno alle librerie e alla circolazione dei giornali, all’intervento di imprenditori illuminati, alla disponibilità ad intraprendere scambi e partnerariati. Per questo sindaco, amministratori locali, forze sociali e imprenditoriali non debbono ritenersi sollevati dal problema.

Conclusioni

Per concludere, conosco molto bene le classifiche e l’uso retorico della statistica in ambito educativo. Io stesso, ogni semestre, sono sottoposto ai questionari anonimi dei miei studenti nel corso delle lezioni e, più in generale, vedo l’ateneo presso cui lavoro collocato ora su ora giù nella scala delle migliore università nazionali ed europee, senza giustificazioni plausibili di queste oscillazioni.

Tuttavia ritengo che esista anche la demagogia dell’antivalutazione, ed è quella dei presidi, dei sindaci, dei rettori e dei professori, dei sindacalisti che trovano sempre giustificazioni che hanno il sapore della difesa della volpe la quale, non potendo raggiungere l’uva, s’inventa che in fondo non era poi così matura! “Se la classifica non ci premia — diranno i coinvolti nelle posizioni più basse — non dipende da noi”, “Io a queste indagini non ci credo”, oppure “Bisogna leggere bene i dati”, “Sono indagini vecchie” e via discorrendo. Non di rado i primi a pronunciare questi discorsi sono proprio i più attenti ad inseguire poi nei collegi dei docenti, di fronte ai genitori, gli interessi della cosiddetta utenza. Se sono politici poi sono in prima fila ad invocare la mannaia contro gli sprechi nell’istruzione e a sostenere dati alla mano che in Italia la scuola va peggio che in Europa, pur avendo classi molto meno numerose, e così via.

Se c’è forse da auspicare che il giudizio sul valore di una scuola non venga ridotto a numeri, non si può non notare che la fondazione Agnelli, proprio per il nome che porta, metta a tacere coloro, e non sono stati pochi negli ultimi decenni, che ritenevano la scuola di Stato, un covo di sediziosi politicanti, o peggio di oziosi e sindacalizzati dipendenti pubblici.

In verità c’è da auspicare che una risorsa preziosa, come la formazione dei giovani, divenga oggetto di investimenti e premure al di là degli steccati ideologici.

C’è, è vero, un’altra soluzione, è quella adottata dai vari Trota, dai falsificatori di diplomi, dai compratori di pseudo titoli di laurea; una strada che non ci porterebbe molto lontano, ma che di sicuro farebbe crollare l’unico export attivo dell’ultimo quindicennio, quello, ahimè, dei “cervelli” italiani.

Fabio Pruneri
Docente di storia dell’educazione
Università degli studi di Sassari

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