Un’esperienza di convivialità con i richiedenti asilo ospitati a Treviglio

scuola di italiano 2Nella nostra città, da qualche mese, 17 richiedenti asilo africani sono ospiti della Fondazione Portaluppi, coordinati della cooperativa Ruah, che li segue e tiene i contatti con le autorità. Hanno tutti lo status di richiedente asilo e — fino a quando il tribunale non si pronuncerà —possono circolare liberamente e gestirsi la giornata: la sussistenza è garantita da quanto è concesso loro dallo Stato. Da subito alcune associazioni trevigliesi (gli Alpini, gli Amici del Roccolo, l’ARCI, Legambiente) si sono offerte per coinvolgere i ragazzi in momenti di lavoro e di convivialità. Assieme a queste, un gruppo di una ventina di nostri concittadini sta cercando di supplire a quella che è, per ora, la loro carenza principale: la conoscenza della nostra lingua. Di età diverse, abbiamo voluto sentire alcuni di loro a proposito di quello che stanno realizzando in queste settimane.

Annarosa, medico: Come sei stata coinvolta in questa iniziative e perché vi hai aderito?
Ho saputo della presenza dei migranti, ma preferirei chiamarli ragazzi perché ragazzi lo sono davvero, da una amica che è presidente di una associazione di volontariato di Treviglio. Mi è stato chiesto di provare a pensare ad alcune attività da far fare ai ragazzi. Ho pensato subito all’Oratorio, ma per problemi assicurativi non abbiamo potuto coinvolgerli (forse più avanti si riuscirà!). Ho pensato quindi di cominciare a conoscerli e con alcune amiche ci siamo recate nell’appartamento dove vivono, d’accordo con gli operatori della cooperativa Ruah. È stato molto bello vedere la loro accoglienza e soprattutto il desiderio di conoscere la nostra lingua, la nostra città e il desiderio di esprimere nella nostra lingua le loro fatiche e il loro modo di affrontare la vita in un Paese straniero. Da allora ci vediamo regolarmente, ma la voglia di imparare il più possibile non è diminuita: chiedono spiegazioni sulla lingua, sulla grammatica, vogliono esprimere nella nostra lingua le loro emozioni e ci aspettano con grande gioia e con il sorriso, nonostante la fatica di vivere lontani da casa, nonostante il lungo viaggio fatto (hanno impiegato anche due anni per arrivare in Sicilia!) e nonostante vivano in un Paese straniero tanto diverso dal loro.

Raffaella, impiegata: In che cosa consistono le vostre serate?
Durante le serata cerchiamo di aiutare i ragazzi ad imparare la lingua italiana attraverso varie modalità: fare con loro i compiti del centro EDA, leggere dei testi in italiano, fare conversazione sulla loro storia o su altri argomenti in base alle loro conoscenze linguistiche. Questi momenti sono molto importanti per loro perché sperimentano una vicinanza con persone di cultura completamente diversa dalla loro. In realtà, oltre alla pratica della nostra lingua, lo scopo è far sentire loro che qualcuno si interessa di loro e delle loro storie. Il tentativo è quello di non farli sentire “stranieri “ in una terra straniera. Essere insomma, per un tratto, compagni del loro cammino, che neanche loro sanno dove li porterà.

Maria, insegnante: Quale è la scolarità di questi studenti?
Come insegnante mi è sembrato doveroso offrire la mia professionalità a chi ne ha bisogno, ma accostarmi a questi ragazzi è diventato subito molto di più che un dovere: è diventato un arricchimento innanzitutto umano, ma anche professionale. In tanti anni di insegnamento si affinano strategie comunicative e relazionali. Con questi ragazzi è “saltato” tutto: nessuno di loro si aspetta una “bella lezione” , loro vogliono imparare a comunicare con noi per conoscerci e farsi conoscere e per farlo sanno che c’è un unico strumento: apprendere la nostra lingua. Come tutti i ragazzi del mondo anche loro hanno tempi diversi, capacità diverse, conoscenze diverse, desideri diversi: c’è chi impara presto, chi ha bisogno di ripetere spesso, chi fa domande e chi, timido, ha vergogna e tace. Allora ogni sera è un’avventura nuova. Grazie, ragazzi!

Daniele, studente: Fra i migranti molti sono ragazzi come te. Cosa ci puoi dire di loro?
Sono ragazzi come me, infatti con molti di loro ho anche stretto amicizia. Hanno le mie stesse passioni, come ad esempio la musica ed il calcio e hanno lo stesso modo di pensare e di relazionarsi con gli altri di un qualsiasi altro adolescente. Sin dai primi incontri ci siamo trovati bene e non c’è stato nessun tipo di barriera linguistica o culturale. Nonostante questo, ci sono delle abissali differenze tra me e loro, a partire dalla loro storia. Nessun adolescente italiano ha passato quello che hanno passato loro, ma nonostante la povertà, la violenza e tutto quello che hanno subito loro, restano degli adolescenti comuni, come me.

Claudia, architetto: È più difficile superare la barriera linguistica o la barriera culturale, o per ora nessuna delle due?
La lingua è sicuramente il primo ostacolo che i ragazzi hanno trovato appena arrivati in Italia, e che continuano a trovare. È indispensabile per ognuno di loro potersi esprimere bene nella lingua del Paese che li ospita per qualsiasi attività, relazione, richiesta, sia nella quotidianità come il semplice fare la spesa o chiedere indicazioni su un luogo da raggiungere sia in attività più complesse, come saper scrivere correttamente, compilare un modulo, fare una richiesta di lavoro… Per loro, e ce lo ripetono spesso, ogni cosa è nuova e difficile, anche imparare l’italiano. Ogni tanto, quando sono con loro per le “lezioni” di lingua italiana (che in realtà spesso sono delle belle chiacchierate in cui ci si aiuta anche con il francese, lingua ufficiale dei loro Paesi d’origine) mi capita di chiedere: “Come dite questo nella vostra lingua?”. E, ridendo, mi parlano in soninke o in mandingo, le lingue comuni a vari Stati come Mali e Senegal, e ovviamente mi trovo di fronte a una lingua completamente sconosciuta… e mi immagino come sarebbe per me se fossi catapultata improvvisamente in un altro Paese lontano, dove non capisco una sola parola di quello che mi dicono e di quello che sento intorno a me… e mi metto nei loro panni, loro che scappano dalla miseria, dalle guerre, da situazioni di violenza, dalla mancanza di libertà di parola o di azione; alcuni di loro non hanno più rivisto la mamma, il papà, fratelli e sorelle, rimarranno lontani dalla loro terra di origine, di cui parlano sempre e comunque con nostalgia, chissà per quanto tempo… Sicuramente, subito dopo la difficoltà linguistica, sentono in modo forte la difficoltà di inserirsi, di abituarsi al nostro modo di vivere e gestire la vita di ogni giorno, ma sono sempre disponibili, curiosi e aperti nel voler conoscere e imparare qualcosa di nuovo della nostra cultura, abitudini, luoghi, musica, natura… e ci raccontano di come siano questi aspetti nei loro Paesi. Hanno tutti tanta voglia e bisogno di sentirsi utili, di inserirsi nel nostro tessuto sociale, di conoscere persone e trovare amici, partecipare alle nostre attività… La maggior parte dei ragazzi ospiti a Treviglio viene dal Senegal, dal Mali, dal Gambia, dal Burkina Faso…. ed è bello per noi confrontarsi con loro e imparare cose nuove dei loro Paesi d’origine. L’altra sera Arsen ci diceva, con la tristezza negli occhi, che quando cammina per le vie di Treviglio spesso si sente considerato come “diverso” e che tante volte le persone lo guardano con paura e diffidenza: ma la diversità fa paura solo quando non si conosce, e la bellissima esperienza che stiamo vivendo con questi ragazzi mi sta facendo capire quanto sia bella invece un’amicizia in cui confrontarsi e conoscersi, e in cui la diversità diventa ricchezza.

Chiara, studente: Che tipo di mondo arriva con i loro racconti?
Sono rimasta molto stupita dal legame che si si sta creando tra me e questi ragazzi: rifletto molto sul fatto che, pur essendo quasi tutti miei coetanei, il loro essere nati in un luogo diverso dal mio li porta ad avere vissuto esperienze completamente diverse dalle mie. Mi hanno raccontato molto dell’Africa, episodi che io neanche immaginavo. Mi hanno raccontato che nei loro Stati di origine c’è la dittatura e che quindi ciò comporta assenza di libertà in termini di pensiero, parole e azioni. Mi hanno raccontato che, a causa della dittatura, alcune delle loro famiglie si sono sgretolate o addirittura distrutte. Mi hanno raccontato che l’Africa è un luogo meraviglioso e che provano molta nostalgia nei confronti di essa, però è anche molto povera e quindi manca la possibilità di istruirsi e di curare le malattie. Quando chiedo se un giorno ci vorranno mai tornare mi rispondono che il loro cuore resterà sempre in Africa ma, fino a che non diventa un posto vivibile, difficilmente ci torneranno. La loro idea di Europa è di un posto più florido, dove c’è maggiore possibilità di lavoro, migliori condizioni di vita e soprattutto libertà, valore che per noi è scontato e che questi ragazzi ci insegnano, giorno dopo giorno, ad apprezzare sempre più.

Maria Rosaria, insegnante: Questi ragazzi, che lezione vi danno?
Innanzitutto una lezione di vita: si sono lasciati un passato doloroso alle spalle, di cui spesso faticano a parlare o che sminuiscono per non soffrire ulteriormente ma non si piangono addosso: vogliono imparare a parlare la nostra lingua per poter fare qualcosa di concreto nella loro situazione e lo fanno con caparbietà e impegno costanti, caratteristiche che a volte non troviamo più nei nostri ragazzi e che loro possiedono tutti, dal più giovane al più adulto. Poi una lezione morale: non si lamentano per quello che hanno o che non hanno per affrontare la vita quotidiana, piuttosto per la mancanza di solidarietà che spesso toccano con mano, mentre loro vorrebbero parlare, conoscere, capire chi gli sta davanti.
Infine una lezione d’amore patrio: hanno lasciato la loro terra, la loro casa ma non sono disposti a smettere di amarla, a rinnegarla anche se lì c’è la povertà o, peggio, la dittatura; magari si sono lasciati attrarre dal mito occidentale ma non sono disposti a scendere a patti con esso. Lottano da lontano, con la loro presenza, per un’Africa diversa da quella che hanno vissuto sulla loro pelle.

Gabriella, informatico: Pensi sia utile il lavoro che state facendo? Vedi dei progressi?
Ritengo il lavoro molto utile, non solo per i profughi, ma anche per me. Infatti, pur considerandomi una persona aperta ai cambiamenti, questa esperienza mi sta dando tanto. Ho scoperto che molti di loro parlano le lingue (francese e inglese, oltre ai loro dialetti) molto meglio di quando lo facciamo noi. Non essendo un’insegnante ho pensato di non cimentarmi nell’insegnamento della grammatica, ma di optare per la conversazione. Mi sembra che tutto stia procedendo per il meglio.

Augusto, impiegato in un’azienda di ricerca: La maggior parte dei migranti sono giovani (18–25 anni), ma c’è anche qualche adulto oltre i 30. Che diversità di motivazioni e progetti hai notato tra loro?
Ho avuto modo di stare con i ragazzi ospitati a Treviglio e di conoscerli un poco. I progetti che vogliono realizzare sono diversi come sono varie le motivazioni (che troppo spesso cerchiamo di costringere dentro stereotipi) che li spingono a lasciare le loro terre. C’è chi fugge da situazioni drammatiche e cerca solo un temporaneo rifugio prima di ritornare in patria, chi si lascia alle spalle condizioni di miseria sperando di trovare un lavoro qualsiasi, chi invece vuole semplicemente migliorare la propria condizione sperando di trovarla lontano da casa. Tutti si impegnano molto nello studio dell’italiano perché sono consapevoli che questo li potrà aiutare nella ricerca di un impiego e facilitarli nelle relazioni al di fuori del loro piccolo gruppo. Infatti quello che più insistentemente cercano, oltre naturalmente al lavoro, è la relazione, il comprendere le nostre idee e farci conoscere le loro.

Molti altri volontari partecipano a questi momenti di convivialità, magari un’altra volta sentiremo anche loro. Il lavoro di sicuro non terminerà molto presto.

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