Vanessa Scialfa, ventunenne di Enna, uccisa dal suo compagno solo perché le era sfuggito il nome del suo ex fidanzato, è solo l’ultima di 54 donne uccise in Italia dall’inizio del 2012. La denuncia rimbalza sui media che parlano di emergenza “femminicidio” nel nostro Paese. La reazione non è mancata. L’associazione “Se non ora quando” ha lanciato un appello (“Mai più complici”) e promosso una petizione che sta raccogliendo migliaia di firme. Parecchie altre associazioni, tra cui anche “Maschile Plurale”, aderendo alla petizione hanno alzato la loro voce. Il Web ha risposto compatto. Tante donne e tanti uomini di tutti i ceti sociali, di tutte le professioni e con ruoli pubblici importanti — in campo politico, sindacale, economico, artistico, giornalistico, culturale e formativo — stanno esprimendo la loro rabbia e indignazione per questa “mattanza che è ora di chiamare femminicidio”, per usare le parole usate da Roberto Saviano su Twitter.
Femminicidio è una parola che non piace, brutta, cacofonica, che fa storcere il naso perché, come dice Isabella Bossi Fedrigotti, rischia di far intendere che i femminicidi siano una categoria di assassini minori, meno gravi dei normali omicidi.
Il termine femminicidio nasce invece da una precisa scelta: alcune criminologhe femministe, quando l’Organizzazione Mondiale Sanità (OMS) negli anni Novanta per la prima volta rese noto che la prima causa di uccisione nel mondo delle donne tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio da parte di persone conosciute, decisero di denominare femminicidio questo reato proprio perché così odioso e diffuso da dover essere distinto dagli altri omicidi. Così questa nuova categoria criminologica consente di rendere visibile il fenomeno e quindi di sollecitare le istituzioni pubbliche a potenziare l’efficacia della risposta punitiva e preventiva.
Ecco perché è ora di dire basta alle ipocrite definizioni di “raptus di gelosia”, “delitto passionale”, “omicidio per troppo amore” e di chiamare col loro nome (femminicidio) le uccisioni compiute da uomini con movente di genere.
Su 120 femminicidi registrati nel 2011, le vittime italiane sono state il 70,83%. I responsabili dei delitti sono stati italiani al 79,17%, il più delle volte mariti o ex mariti, compagni, conviventi o fidanzati, persone che comunque avevano un rapporto affettivo o familiare con le donne loro vittime. Una “mattanza” che continua nel 2012 con previsioni ancora più nere (54 le donne uccise nel primo quadrimestre dell’anno). Senz’altro, da alcuni anni a questa parte, le iniziative volte a prevenire la violenza contro le donne si sono moltiplicate, ci si è mossi sul piano educativo, delle leggi, della conoscenza per un cambiamento culturale di maggiore garanzia di tutela dei diritti delle donne, qualche volta riuscendo anche a coinvolgere le istituzioni. Ma siamo lontanissimi dall’aver ridotto in modo significativo le forme di discriminazione e di violenza di genere che sono in grado di annullare la donna nella sua identità e libertà.
Che fare per combattere i femminicidi?
Alcune indicazioni vengono dalle Nazioni Unite, da Rashida Manjoo, relatrice ONU sul problema, che è stata in Italia a gennaio, ha incontrato associazioni, gruppi organizzati, forze dell’ordine, operatori di giustizia, donne sopravvissute al femminicidio, parenti di donne uccise e ha concluso: “il quadro politico e giuridico frammentario e la limitatezza delle risorse finanziarie per contrastare la violenza sulle donne […] ostacolano un’efficace ottemperanza dell’Italia ai suoi obblighi internazionali”.
È necessario dunque in primis che le istituzioni pubbliche italiane investano, nello specifico, nello studio e nella prevenzione del femminicidio e più in generale in severe e drastiche politiche di contrasto alla violenza sulle donne, riconoscendo che il femminicidio, lo stalking, le vessazioni, gli abusi sessuali sono da considerarsi violenze di genere.
Non si può più attendere. Tutte le donne e tutti gli uomini che hanno a cuore il riconoscimento anche per le donne, in quanto donne, dei diritti umani universali, debbono chiedere con forza e determinazione che il paese Italia metta tra le priorità delle proprie scelte quella della lotta alla violenza sulle donne.
Una collaborazione fortissima della società civile, una sensibilizzazione dei media, una più frequente realizzazione di campagne di educazione pubblica, una presa di posizione netta da parte di tutti i politici ed i personaggi pubblici possono far sì che le istituzioni si attivino più di quanto abbiano fatto finora e che la società, nel suo complesso, consideri socialmente e culturalmente inaccettabile la violenza nei confronti delle donne.
In questi giorni ognuno di noi può contribuire a realizzare questo obiettivo, a dire no alla violenza sulle donne, aderendo all’appello di “Se non ora quando” e dichiarando con una semplice firma che non sarà mai più complice degli orrendi delitti che ancora si compiono ai danni delle donne.
Una firma per una battaglia di civiltà nella consapevolezza che “sul possesso e il controllo delle donne si gioca il futuro di tutti” (Lella Costa).
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