Non mi piace questa litania che gira che considera questo “governo tecnico” come il fallimento della politica o quanto meno come la sospensione della politica o il suo abdicare ai tecnocrati. Intendiamoci: non sto pensando alle sparate di Scilipoti e dei suoi imitatori. Lì, nel suo caso, la politica ha abdicato al cabaret. Né ho in mente la contrapposizione strisciante di chi sotto sotto si avvicina a quanto accaduto avendo in testo lo schema: tecnici = destra, politica = sinistra. Sto ripensando invece ai commenti seri di questi giorni, e vorrei provare a formulare una tesi un po’ estrema: e se il “governo tecnico” fosse un fatto “politico”, anzi fosse esattamente la politica? È forse una tesi estrema, che però forse può dare un angolo di prospettiva diverso nel leggere ciò che sta accadendo in queste settimane.
Che non vi sia contrapposizione tra governo tecnico e politica, è discussione che si potrebbe smarcare velocemente se si avesse presente che questo governo “tecnico” ha avuto la fiducia esattamente dai “politici”. Oggi non è nel pieno delle sue prerogative per imposizione divina o tramite colpo di Stato militare; è il governo della Repubblica italiana perché i politici da noi eletti nei due rami del Parlamento lo hanno votato. Sia che lo abbiano votato perché convinti o perché forzati dalla disciplina di partito, hanno fatto un atto politico, in quanto eletti dal popolo (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” art. 1).
Questa è una argomentazione valida ma in parte retorica. Vorrei che si riflettesse a partire dalla famosa separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) su cui si fondano tutte le forme del moderno stato di diritto per chiedersi: quale è il “luogo” della politica? È il Parlamento, in quanto luogo deputato a formulare le leggi che delineano e normano il funzionamento dello Stato, il luogo “politico” per eccellenza o no? Politico non solo perché composto da chi è stato espresso (votato) dai componenti della polis, dai cittadini. Ma anzitutto politico perché decide, tramite le leggi, della vita di tutti. Il potere giudiziario non può cambiare una legge del Parlamento, ma esiste per farle rispettare. E il potere esecutivo non solo deve farsi approvare dal Parlamento ogni anno “la madre di tutte le leggi”: la legge finanziaria. Il potere esecutivo deve passare dalle forche caudine del Parlamento, cioè della politica, ogni qualvolta abbisogna di una legge per concretizzare le sue idee operative. Si apre qui anche un aspetto di considerazione non centrale per questa riflessione, ma su cui poco si riflette: la sostanziale preminenza formale del potere legislativo sugli altri due rimanenti.
Se si riflette, si noterà che qualcosa di simile si ritrova nel funzionamento dell’Amministrazione comunale. Esiste una Giunta che governa, ma che fa ciò proprio all’interno delle linee guida che il Consiglio comunale (Parlamento locale) ha indicato, sia attraverso il Bilancio di previsione che attraverso i vari regolamenti e indirizzi che fornisce.
E se allora è il Parlamento il luogo “politico” (rappresentanti del popolo che danno le linea guida al Governo e formulano le leggi per il funzionamento della polis), perché non pensare che il Governo sia il luogo “tecnico” ove le indicazioni strategiche date dal Parlamento vengono concretizzate? Allo stesso modo, perché non vedere il ruolo “politico” del Parlamento quando approva o boccia un alcunché (Legge ordinaria, Legge finanziaria o altro) proposto dal Governo in quanto “tecnico”?
Perché uno degli interessanti effetti secondari che l’esistenza del “Governo dei tecnici” produrrà è proprio questo: lo spostare il dibattito “politico” sulle norme da adottare dal chiuso del Consiglio dei Ministri all’aperto–pubblico del Parlamento. Chiedendo ai partiti, espressione organizzata della politica, di esprimersi esponendosi pubblicamente.
Allora viene il dubbio che una certa riluttanza della politica, intesa come partiti e come onorevoli e senatori, ad accettare il Governo “tecnico” trovi proprio qui la sua giustificazione più profonda: la riluttanza a vedersi servita nei prossimi mesi una serie di misure concrete su cui votare metaforicamente alzando la mano. Il dubbio che la “politica” non sappia esattamente cosa dire ai tecnici di fare e di come dirglielo. E nel dubbio, la metta in caciara, mischiando ruoli e responsabilità tra i poteri delle Stato.
Aldilà di quali saranno le misure concrete che verranno pensate per portarci fuori dal pantano della crisi e della valutazione che ciascuno liberamente potrà dare di esse, aldilà del 2013, l’esperienza di questo Governo “tecnico” servirà quanto meno alla “politica” a prendersi la responsabilità, mettendoci la faccia, di decidere. Se siamo arrivati dove siamo è proprio perché la politica ha fatto negli ultimi anni, di tutto fuorché la politica. Di dire “sì” o “no” su quanto i “tecnici” proporranno. Negli ultimi vent’anni abbiamo visto la politica mostrare litigiosità oltre ogni misura (ci ricordiamo tutti come è finito il Governo Prodi, per non dire del nulla di fatto parlamentare su temi fondamentali) e sullo scambiare allegre scampagnate in qualche villa al mare in estate o dacia in inverno per politica estera. Ci hanno propinato odontotecnici come Ministri incaricati di riformare lo Stato, signore con una laurea presa non proprio ad Harvard incaricate di ridisegnare il sistema educativo–formativo dei nostri figli, e ministri e sottosegretari costituiti ad hoc con l’unico vero scopo di garantire gli equilibri “politici”, manco il Governo fosse una bilancia.
Ben venga adesso una sottolineatura anche netta e forzata dall’esterno della distinzione tra “politica” e “tecnica” se questo servirà alla politica a riprendersi il suo proprium e convincersi che il suo primo obiettivo è decidere, scegliere, dire “sì” o dire “no”. Non mi pare sia chiedere troppo.