Nel dibattito in corso sul capitolo “articolo 18” rischiano di esserci delle prese di posizione teoriche legate ad un “come dovrebbe essere se tutto funzionasse bene” che non sempre ha riscontro nella realtà vissuta dalle persone.
Faccio un esempio molto concreto.
Ero nella rappresentanza sindacale quando 3 anni fa, adducendo ragioni di tipo economico, l’azienda presso cui lavoro ha presentato un conto salato: dichiarazione di 35 esuberi. Per chi è abituato ai numeri delle grandi fabbriche può dire poco ma nella mia divisione questo corrispondeva al 50% del personale impiegato.
Coinvolte persone da 35 a 55 anni e, poiché la sfortuna è cieca come la fortuna, tra questi single e con famiglia, genitori con figli grandi da mantenere negli studi o con figli portatori di handicap.
Dopo incontri e discussioni varie, non riuscendo se non in piccolissima parte a reimpiegare persone in altri reparti, la conclusione è stata un accordo con due strumenti: un incentivo all’esodo e la mobilità. Proprio gli strumenti dei quali si sta parlando in questi giorni.
Due strumenti complementari e fondamentali soprattutto perché servono soldi e tempo per sopravvivere e cercare un nuovo lavoro (o agganciarsi alla pensione); le crisi di questi anni sono globali, toccano più settori e non è così facile trovare un’alternativa quando tutte le aziende vanno in crisi contemporaneamente.
Nel nostro caso il “pacchetto” prevedeva una indennità di mobilità di 12 mesi (per chi aveva meno di 40 anni), 24 mesi (per chi era tra 40 e 50 anni) o 36 mesi (per gli over 50) ed in aggiunta un indennizzo calcolato anche tenendo conto di età anagrafica, carichi famigliari, anzianità aziendale ed un correttivo per avvantaggiare chi aveva gli stipendi più bassi. Complessivamente una copertura completa di almeno 3 anni, contributi compresi.
La fatica dei colleghi nel trovare un’alternativa di lavoro, normalmente con condizioni peggiori, ha evidenziato ulteriormente la necessità di strumenti di sostegno. E l’aspetto economico è solo uno degli effetti riscontrabili in queste vicende di perdita del lavoro che mette a dura prova la considerazione che si ha di sé.
Pensate alla Fiber o più in grande immaginatelo per la Same e potrete facilmente vedere gli effetti locali.
Ma cosa succederebbe nella vicenda che ho raccontato con le regole che si stanno discutendo? Un bel disastro.
L’età pensionabile è aumentata a 67 anni, vanificando ogni possibilità di accompagnamento alla pensione.
Gli indennizzi si riducono: il magistrato potrà stabilire da 15 a 27 mensilità.
La mobilità si riduce fortemente: l’ASPI per gli over 50 prevede 12 mensilità anziché le 36 attuali (e nessuno anche oggi gongola con € 800 al mese).
La previdenza, di tipo contributivo, alimentata da lavori precari viene depotenziata.
Chi pagherà i costi sociali di 50–60enni allontanati dal lavoro? Loro stessi, quindi i più deboli?
Se si ritiene che il ricorso ai licenziamenti di questo tipo sarà limitato perché non prevedere indennizzi superiori?
Ha senso, nel giro di pochi mesi, alzare l’età pensionabile e rendere questa fase della vita più precaria? Se la prima decisione è connessa ad una maggiore speranza di vita, la seconda non crea certo posti di lavoro in più.
Si sono formate le città per una migliore difesa, insieme, dei nemici (il principio di solidarietà); non ci sono più eserciti alle nostre porte ma altri pericoli per la vita sociale incombono. Se scarichiamo solo sui deboli la fatica della difesa, che invece può essere condivisa, mettiamo in discussione l’intero impianto che ci tiene insieme, ognuno contribuendo con le proprie capacità e possibilità.
Ben venga quindi la discussione ed il confronto avendo chiari i termini della questione anche nei loro risvolti concreti. Solo così si potranno dire sì, no o un “ci pensiamo un attimo”.
Mi fanno più paura i consensi a priori, soprattutto se espressi da chi non avrà fastidi di tipo economico per la propria vecchiaia, qualunque sia la decisione che il Parlamento prenderà nei prossimi giorni.