Giocare è una cosa da persone serie

Ogni gioco presuppone l’accettazione temporanea, se non di un’illusione (per quanto quest’ultima parola significhi nient’altro che entrata in gioco, in–lusio), almeno di un universo chiuso convenzionale e, sotto determinati aspetti, fittizio. (R. Caillois)

Cosa c’entra la teoria dei giochi con quanto successo in Italia nelle ultime settimane? C’entra eccome. E non perché si pensi che l’Italia è andata a rotoli perché chi ci ha governato ha giocato anziché fare sul serio. Anzi: se chi ha governato l’Italia (e non è stato Berlusconi in perfetta solitudine a farlo…) avesse veramente giocato il gioco della politica, allora le cose sarebbero andate ben diversamente. Perché, come Huizinga ha ben mostrato, giocare un gioco è tutto fuorché un gioco. Giocare un gioco richiede di stare nelle regole del gioco a tal punto che il giocatore non è libero ed è imbrigliato dal gioco stesso. Nel gioco chi gioca è il gioco e ciò che noi vediamo come “giocatore”, in verità è il “giocato” dal gioco.

L’analogia mi è venuta per almeno due dimensioni del dibattito di questi giorni. La prima analogia mi è venuta con chi ha eccepito che il passaggio da Berlusconi a Monti segna l’abdicare della politica ai signori dei mercati (e non lo ha detto solo Silvio…) , segna il destino di un Parlamento che accetta di farsi guidare dalla speculazione finanziaria piuttosto che dalla politica. Tutto ciò forse è vero e potrebbe anche essere condivisibile se non fosse che dimentica un punto essenziale: è la politica che da anni, ma forse da decenni, si è messa sul piano della finanza, fruendo delle regole di quella e facendosi guidare solo da quella. E abbiamo accettato noi come pensiero unico quello per il quale la prima notizia del mattino è come ha aperto la Borsa di Tokyo e non come stanno andando le nostre aziende o quante persone hanno perso il giorno prima il proprio lavoro. Avendo accettato di porre i destini della collettività sul piano della finanza, adesso quel gioco dobbiamo giocare. Forse quello della finanza non è il “vero mondo” e la sua visione della vita degli uomini non è la “vera” vita, ma non si può pensare di restare su un campo da calcio pretendendo di usare le regole della pallavolo…

Adesso è tempo di arrivare alla fine della partita con le regole del gioco che si è voluto giocare. Certo cercando di limitarle ad essere delle “regole” e non dei “fini”, ma a quel gioco si deve giocare.

E proprio un discorso del più famoso allenatore di pallavolo, Julio Velasco, sulla “cultura dell’alibi” che potete trovare su YouTube e di cui basta seguire i primi 2 minuti — guardatelo tutto, se avete tempo… — mi porta a toccare un’altra analogia emersa tra la teoria dei giochi e quanto successo. È l’approccio per cui si deve sempre avere un alibi per le cose scomode anziché semplicemente riconoscere che il gioco ha le sue regole e che si è stati incapaci di giocarlo, ovvero se ne è usciti sconfitti. Berlusconi se ne è andato dicendo che è stata colpa dei finiani se in questi 3 anni da maggioranza bulgara non ha fatto una che sia una delle riforme epocali promesse nel 2008. Così come nel suo precedente periodo di governo dal 2001 al 2006 è stata colpa dell’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre, e della conseguente tensione mondiale. Così come nel suo brevissimo primo governo la colpa non era stata sua ma di una congiura prima della Lega e poi dell’allora presidente Scalfaro se non aveva potuto continuare (vi ricordate che si definiva “centravanti di sfondamento”?). Per ogni insuccesso una scusa, per ogni errore un alibi, mai la semplice ammissione: ho sbagliato, gli altri sono stati più bravi o più furbi di me. Ma all’uso malefico di questa cultura dell’alibi deve ora stare ben attenta la sinistra. Qui non si tratta di nascondersi dietro l’alibi della crisi, delle borse, del debito pubblico, del “Governo dei tecnici” etc. etc. per giustificare e far digerire certe decisioni. No, si stratta una volta tanto di accettare di giocare il gioco della politica che chiede al politico di fare le sue scelte e di motivarle a partire dalla sua visione della polis. Il numero di parlamentari va ridotto non perché in tempi di crisi tutti dobbiamo stringere la cinghia e quindi anche la politica deve fare la sua parte (come se fosse questa la “sua” parte). Va ridotto perché è comunque un numero eccessivo che drena risorse e impedisce soluzioni veloci. Ridurre il peso delle corporazioni va fatto non perché è l’Europa che ci impone di liberalizzare l’accesso alle professioni e al lavoro, ma perché è giusto che chi vuole mettersi in gioco lo possa fare in base alle sue capacità e volontà e non sia sempre svantaggiato rispetto a chi è “figlio di” o “parente di”. Perseguire gli evasori fiscali non è da farsi perché dobbiamo rimettere in pareggio i conti dello Stato. È da farsi perché è ingiusto che qualcuno si tenga per sé i soldi che invece sono destinati a quella comunità di cui anche lui fa parte e di cui anche lui fruisce.

Ecco: ci piacerebbe che la sinistra nelle prossime settimane e mesi non usasse mai l’alibi della crisi per giustificare le sue scelte. Ma ponesse al Paese misure e cambiamenti che sarà disposta a sostenere anche dopo, anche quando — speriamo — la crisi sarà alle spalle. Non pensare oggi in puri termini di “crisi”, forse (detto sottovoce) , forse è dire qualcosa di sinistra…

 

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