La storia è nota. Nel luglio del 2013, durante la Festa della Lega di Treviglio, l’allora vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, durante il suo comizio dal palco sostenne che il Ministro dell’integrazione, Cécile Kyenge, gli ricordava un orango.
Una chiara affermazione razzista, detta in pubblico da una autorità dello Stato (Calderoli), che provocò immediatamente la disapprovazione disgustata di tutto il mondo civile, in Italia e all’estero.
Dopo due anni Il Senato dà il via libera alla autorizzazione a procedere contro Roberto Calderoli per diffamazione nei confronti dell’ex ministro Cecile Kyenge, ma respinge la richiesta del tribunale di Bergamo di procedere per il reato di istigazione all’odio razziale.
Per la Kyenge si tratta di un «messaggio devastante delle istituzioni ai giovani e ai ragazzi proprio mentre, con l’emergenza migranti, in tutta Europa cresce il razzismo».
Parole sacrosante. Ma quello che mi lascia perplesso è che la decisione del Senato è stata bipartisan, sostenuta da partiti al governo e all’opposizione, nessuno escluso. Infatti, per l’istigazione all’odio razziale l’Aula ha respinto la richiesta di autorizzazione a procedere con 196 no (46 i sì e 12 le astensioni). In parole povere per ben 196 quella “battuta”, come l’ha definita il suo autore, era insindacabile, perché in quel comizio il politico leghista stava “esercitando le sue funzioni da parlamentare”.
Con questa decisione si è aperta una breccia. Ora qualsiasi deputato può permettersi di insultare o apostrofare chiunque senza conseguenze, per lo meno nell’accusa di istigazione all’odio razziale.
È sconcertante pensare che ancora una volta chi dovrebbe dare il buon esempio se la cava con l’aiuto dei colleghi senatori che evidentemente, con questa decisione, si mettono al riparo da eventuali contestazioni future a loro imputate.
È proprio vero: al peggio non c’è mai limite.